La crisi della riproducibilità colpisce anche l’entomologia

1318* 29 giugno 2025

(Articolo tratto da wired.it)

Forse conosciamo gli insetti meno di quanto credessimo: la crisi della riproducibilità colpisce anche l’entomologia.
Fino al 42% degli esperimenti sul comportamento degli insetti potrebbe produrre risultati non replicabili.
La crisi della riproducibilità è una delle minacce più gravi che affronta oggi la scienza. E nessun campo sembra immune al problema. Nemmeno gli studi sul comportamento degli insetti, forse il modello animale più semplice da gestire in laboratorio: un nuovo studio pubblicato su Plos Biology suggerisce infatti che fino al 42% delle volte, i risultati di questi esperimenti non sono riproducibili. E non per sciatteria, frode, o qualche altro peccatuccio degli autori, ma, più probabilmente, a causa di alcuni limiti metodologici degli esperimenti stessi. Vediamo che significa.

La scienza è un’impresa corale, e bisogna potersi fidare dei risultati dei propri colleghi per costruirci sopra i propri, e continuare ad accumulare conoscenze. Se gli esperimenti danno risultati diversi quando prova a farli qualcun altro, quindi, il problema è bello grosso. E purtroppo capita sempre più spesso: in alcuni campi, come le scienze sociali o quelle biomediche, si ritiene che fino al 60, forse persino 70% degli studi presenti nella letteratura scientifica non siano in realtà riproducibili, replicando l’esperimento originale.

In parte – è opinione comune – la crisi della riproducibilità è dovuta a comportamenti scorretti e malafede da parte degli scienziati. La cultura del pubblica o muori (publish or perish) ha creato un ambiente in cui per fare carriera bisogna ottenere molti risultati in fretta, e visto che i risultati si contano in termini di pubblicazioni scientifiche, c’è una forte pressione per ottenere risultati pubblicabili, al costo di chiudere un occhio sul rigore metodologico, o magari di ritoccare i dati.

Un altro problema riguarda il modo in cui funziona l’ecosistema delle riviste scientifiche. Per mille motivi, si tende a pubblicare preferibilmente studi che ottengono risultati positivi, dimostrano o smentiscono un’ipotesi. Questo a sua volta crea il cosiddetto “bias di pubblicazione”, cioè una situazione in cui le ricerche pubblicate sono una frazione di quelle che vengono effettuate (che spesso tendono a non scoprire proprio nulla), ed essendo selezionate tra quelle con risultati positivi, aumenta la probabilità che riportino falsi positivi (risultati non riproducibili).

Il problema è noto almeno dalla fine degli anni ‘90, e colpisce, in modi diversi, più o meno tutto lo spettro delle discipline scientifiche. In un sondaggio del 2016, il 70% degli scienziati intervistati ha dichiarato di aver provato a replicare qualche esperimento di un gruppo di colleghi, fallendo nell’impresa. E più di metà ha ammesso di aver fallito anche nel riprodurre i risultati dei propri stessi esperimenti. È evidente, quindi, che la situazione deve avere molte cause diverse.

Nel caso delle ricerche biologiche, però, c’è un altro problema che può aumentare il numero di risultati non replicabili: l’eccesso di standardizzazione nel design degli esperimenti sugli animali da laboratorio, che fa perdere di mira l’impatto della variabilità biologica del mondo naturale

Il problema nasce proprio dal tentativo di aumentare la riproducibilità degli esperimenti. Controllando le condizioni ambientali, e limitando così le possibili variabili in gioco, si aumenta infatti la certezza di aver ottenuto risultati oggettivi, e quindi replicabili. Al costo di ridurne la validità: restringendo le variabili in gioco si riduce anche il valore delle informazioni ottenute, e aumenta la probabilità di ottenere risultati spuri, non significativi. E se quello che emerge da uno studio è una correlazione casuale, è più probabile che i risultati si rivelino non replicabili. È quella che il biologo Hanno Würbel ha definito “fallacia di standardizzazione” in un articolo pubblicato nel 2000 su Nature Genetics, usata spesso per spiegare la difficoltà che esiste nel replicare i risultati degli studi preclinici effettuati su modelli murini (su topi). Lo stesso ragionamento, però, dovrebbe valere per tutti gli esperimenti di laboratorio che hanno per protagonisti degli animali. E in effetti, è quello che hanno voluto dimostrare gli autori del nuovo studio, lavorando sugli insetti.

La ricerca è stata condotta da tre gruppi di scienziati delle università di Münster, Bielefeld e Jena, e ha coinvolto tre specie di insetti: tentredine delle crucifere (Athalia rosae), un imenottero infestante utilizzato in un esperimento per determinare l’effetto della denutrizione sul comportamento delle sue larve; Tribolium castaneum, anche noto come scarabeo rosso della farina, di cui sono state indagate le preferenze di habitat; e cavallette comuni (Pseudochorthippus parallelus), coinvolte in un esperimento per determinare il tipo di substrato su cui preferiscono trascorrere il proprio tempo, e se questo sia influenzato dal loro colore (esiste una certa variabilità tra il verde intenso e il marrone).

Le specifiche esatte degli esperimenti non sono importanti. Quel che conta è che sono stati replicati nei laboratori di tutte e tre le università, e che i risultati non sono stati gli stessi. La replicabilità di un esperimento si può valutare in diversi modi. Concentrandosi sulla significatività statistica dei risultati, i ricercatori sono riusciti a replicare gli esperimenti (in media) nell’83% dei casi. Guardando invece alla dimensione dell’effetto (quanto sia forte la relazione tra le variabili studiate) è stato possibile replicare solo il 66% degli esperimenti. Utilizzando entrambi i criteri, infine, gli esperimenti replicabili sono risultati il 58%.

Cosa ci dice tutto questo? Per prima cosa, che gli esperimenti sul comportamento degli insetti hanno in media una maggiore riproducibilità rispetto a molti altri tipi di ricerche: negli studi sulla biologia dei tumori, ad esempio, si parla di appena un 18% delle ricerche che riescono a replicare la dimensione dell’effetto dell’esperimento originale. Allo stesso tempo, però, studiare gli insetti in laboratorio dovrebbe essere relativamente semplice, soprattutto in condizione altamente standardizzate, e quindi a detta degli autori della ricerca, c’è molto margine di miglioramento anche in questo campo.

Secondo loro, un aspetto centrale riguarda l’eccessiva standardizzazione delle condizioni sperimentali: dei tre esperimenti svolti, quello con le cavallette è risultato il più riproducibile, ed era proprio quello in cui le condizioni risultavano meno standardizzate, perché utilizzava insetti catturati in natura, e quindi con un’elevata variabilità genetica ed esperienziale. Lasciare più spazio al caso, quindi, potrebbe essere una delle strade per uscire dall’attuale crisi di riproducibilità degli esperimenti, almeno in questo campo.

Secondo loro, un aspetto centrale riguarda l’eccessiva standardizzazione delle condizioni sperimentali: dei tre esperimenti svolti, quello con le cavallette è risultato il più riproducibile, ed era proprio quello in cui le condizioni risultavano meno standardizzate, perché utilizzava insetti catturati in natura, e quindi con un’elevata variabilità genetica ed esperienziale. Lasciare più spazio al caso, quindi, potrebbe essere una delle strade per uscire dall’attuale crisi di riproducibilità degli esperimenti, almeno in questo campo.

 

 

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